Lo spogliatoio

“Domenica giochi alle 9.00. Veniamo tutti a vederti”

Per Marco la settimana era divenuta più corta perché l’attesa era già iniziata.
Oggi era giorno di allenamento e sicuramente al campo avrebbero dato maggiori informazioni. Di solito le scelte su chi far giocare erano condivise con la squadra nel cerchio che chiudeva l’allenamento ma il più delle volte venivano proposti più appuntamenti in modo da far giocare tutti.

Nel minirugby giocare è un diritto di tutti, da quello che si allena poco a quello che ancora non sa placcare. Marco aveva vissuto in prima persona questa possibilità e la riteneva fantastica. Certe volte si era sentito triste a bordo campo mentre qualcuno giocava al suo posto ma, quando papà Riccardo gli spiegò, asciugandogli le lacrime, che quel posto era del rugby, che il gioco aveva inventato tutto quanto e che ogni cosa era messa a disposizione di tutti, Marco capì che c’era solo un modo per continuare a giocare: rispettare il gioco.

Per chi fa rugby il gioco è tutto.
A nulla servono le parole se prima non hai fatto, a nulla servono le recriminazioni se non hai provato a migliorare, a nulla servono le scuse se hai voglia di giocare.
E se hai voglia di giocare non ti serve altro.

Gianluca e Mary erano già pronti con il materiale fuori dallo spogliatoio quando Marco arrivò di corsa. Si infilò dentro pensando di essere in ritardo ma vedere Filippo, Michele, Paolo, Davide, Luca e Nicola ancora intenti a mettersi le scarpe, o a cercare il paradenti, lo rassicurò un po’.

Poco dopo tutti erano pronti e uscirono fuori.

Gianluca e Mary stavano parlando con alcuni genitori, forse stavano dando informazioni sul torneo di domenica, … che peccato non avere il superudito.

La squadra si avviò verso la porzione di campo solitamente a loro dedicata per gli allenamenti, ma non riuscì neppure ad arrivare a metà percorso che il fischietto di Mary risuonò. Un ampio e deciso gesto delle braccia li richiamò ad entrare di nuovo dentro lo spogliatoio.

Lo spogliatoio è un po’ come la tua camera.
Ci trovi tutto quello che ti serve, a volte non proprio in ordine, ma il più delle volte ti basta sapere, pensare che ci sia.
Come in camera tua, quando entrano i genitori sai che devono dirti qualcosa.
La tua coscienza cerca di ricordarsi il motivo o già trema perché in cima alla lista dei pensieri, quelli tristi e incancellabili, ce n’è uno fresco fresco.
Di solito proprio di quello vogliono parlare i genitori e tu speri che il tuo silenzio possa bastare.

A rugby lo spogliatoio è la stanza della verità, lì non puoi mentire ai tuoi compagni o ai tuoi allenatori.
Le prime volte, ti viene di farlo, forse è anche normale, ma ben presto capisci cosa significa che le bugie hanno le gambe corte. Puoi mentire, puoi dire che non sei stato tu a fare quello scherzo sciocco o a dire quelle parole che feriscono perché tutti ti crederanno, tutti, tutti tranne te.

Marco questa cosa l’aveva capita in under 8 quando, durante un allenamento aveva spinto a terra un bambino con uno sgambetto e lo aveva fatto d’istinto, di rabbia perché “quello” gli aveva preso il pallone di mano a gioco fermo.

Gianluca non aveva atteso, li richiamò subito tutti dentro lo spogliatoio.
Le sue parole furono chiare: riguardavano la tecnica del placcaggio, il rispetto dell’avversario che devi accompagnare a terra, il senso del gioco che è sfida e lotta ma sempre dentro le regole.
Marco era pronto a mentire, a dare la colpa a “quello”, anche a lasciare il rugby pur di non dover ammettere, pur di non piangere davanti a tutti. Ma nessuno lo accusò, solamente le ultime parole di Gianluca pesarono come macigni “e che non accada mai più che non si rispettino le regole del rugby”.

Quella volta la riunione dentro lo spogliatoio si capì subito che non riguardava “fattacci” o sensi di colpa. Mary aveva portato una grande lavagna bianca e, passato il pennarello rosso a Gianluca, iniziò a scrivere.

Il primo pensiero di Marco fu rivolto al tipo di scrittura di Mary.
Molto arrotondata, scriveva in stampatello come se fosse corsivo, aveva un tratto dolce che, conoscendola in campo, sembrava proprio non avere.

Poi lesse il titolo: ESTARUGBY